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- La sorveglianza attiva del tumore prostatico a basso rischio
Vincenzo Scattoni UO di Urologia, Ospedale San Raffaele, Milano Il tumore della prostata a basso rischio: cos’è e quanto è frequente Il tumore della prostata (adenocarcinoma), pur essendo un tumore maligno, ha una ampia gamma di aggressività che varia da un aspetto “quasi” benigno (e quindi, potenzialmente, non da trattare o curare immediatamente) a delle forme notevolmente aggressive che possono essere anche fatali. Uno dei parametri istologici (alla biopsia) più importanti per definire e “misurare” l’aggressività è lo score (punteggio) di Gleason , che è formato da due numeri (da un valore di 3 a 5) e dalla sua somma (detto appunto score). Per fare un esempio esemplificativo, il referto della biopsia riporterà la seguente dicitura: adenocarcinoma prostatico, Gleason 3+4 con score = 7. Il primo numero descrive il grade istologico della popolazione cellulare più rappresentata all’interno del tumore, il secondo il grade istologico della popolazione cellulare meno presente all’interno del tumore. Nell’esempio prima riportato, la popolazione più rappresentata ha caratteristiche con grade di tipo 3 e quella meno rappresentata con caratteristiche di grade tipo 4, con somma (score) uguale a 7 (Gleason score 7=3+4). Dal 2016 è stata introdotta dall’ISUP (International Society of Urological Pathology)(dopo approvazione della Organizzazione mondiale della sanità, World Health Organization=WHO) una nuova classificazione, chiamata Grade Group (GG), che distingue i tumori in 5 gruppi. Questa nuova classificazione presenta il vantaggio di una maggiore semplicità e immediatezza (il grado più basso è 1) e si correla meglio alla prognosi. ISUP Grade Group (GG) Gleason corrispondente Grado 1 (I/V) 3 + 3 = 6 (o inferiore) Grado 2 (II/V) 3 + 4 = 7 Grado 3 (III/V) 4 + 3 = 7 Grado 4(IV/V) 4+4=8 3+5=8 5+3=8 Grado 5(V/V) 4 + 5 = 9 5 + 4 = 9 5 + 5 = 10 Un altro modo, non solo istologico, per ”misurare” l’aggressività è quello di valutare il tumore in classe di rischio (vedi tabella) che utilizza anche altri parametri oltre allo score di Gleason, come il PSA e lo stadio clinico (valutato con la esplorazione rettale o con la ecografia prostatica TR o ancora meglio con la risonanza magnetica multiparametrica). Circa il 20-30% di tutti i casi di tumore della prostata diagnosticati sono, alla biopsia, con un basso grado istologico, detto GG1 o tumori a basso rischio, ovvero con un punteggio di Gleason 3+3. Questi tumori sono spesso detti “ indolenti ”, oppure “ clinicamente non significativi ”, a differenza dei tumori di gruppo 2 (GG2) o superiore (Gleason 3+4 o maggiore)(tumore a rischio intermedio), che sono invece detti “clinicamente significativi”. Negli anni è stato dimostrato che la probabilità di sviluppare metastasi, e quindi morire di tumore della prostata, in caso di tumori a basso rischio (o GG1), è molto molto bassa (o nulla). Inoltre, un importante studio clinico ha evidenziato che non esiste una differenza di mortalità qualora i pazienti con tumore della prostata localizzato a basso rischio siano sottoposti alla chirurgia, alla radioterapia, o alla sola osservazione (studio Protect) e che quindi il trattamento di questo tumore non porta alcun vantaggio rispetto a non trattarlo al momento della diagnosi. Lo studio TRIO ha valutato una tecnica di biopsia prostatica mirata alle zone sospette identificate dalla risonanza magnetica (colonne “Targeted” e “Combined”), evidenziando che circa il 30% dei tumori diagnosticati sono di gruppo 1 (area blu del grafico), cioè a basso grado (Adattato da Ahdoot M, et al, N Engl J Med 2020;382:917-928). La sorveglianza attiva del tumore della prostata a basso grado: razionale Avendo dimostrato l’assenza di un beneficio in termini di sopravvivenza fra chirurgia, radioterapia e osservazione del tumore della prostata localizzato, intorno agli anni 2000, è stata proposta una strategia di controllo per il tumore della prostata a basso grado (ovvero Gleason 3+3), detta sorveglianza attiva . Il razionale di questa strategia è EVITARE o RITARDARE, il trattamento attivo che, notoriamente, ha molti effetti collaterali importanti e che possono inficiare sulla qualità della vita del paziente dopo trattamento. In tutte le linee guida mondiali (vedi quelle della NCCN del 2024), ad oggi, la sorveglianza attiva del tumore della prostata a basso rischio è la prima opzione. La sorveglianza attiva ha, quindi, la finalità di ridurre il rischio complessivo delle conseguenze/effetti collaterali dell’intervento chirurgico (ad esempio l’incontinenza e l’impotenza), o della radioterapia, (ad esempio le irritazioni della vescica e del retto) mantenendo invariato il risultato dei benefici clinici. La sorveglianza viene presa in considerazione quando lo stadio della malattia prostatica non richiede ancora un trattamento attivo che, quindi, NON risulta ancora necessario. Tale trattamento viene, eventualmente, posticipato nei casi quando, durante i controlli, la malattia si aggrava. Solo in questi casi, il trattamento diventa utile, conveniente e necessario per cui “vale la pena” correre i rischi di sviluppare tutte le possibili conseguenze e gli effetti collaterali. La sorveglianza attiva prevede quindi di effettuare dei controlli ripetuti nel tempo, misurando i valori di PSA, effettuando la risonanza magnetica multiparametrica, e ripetendo, nel tempo, le biopsie prostatiche. Come funziona la sorveglianza attiva La sorveglianza attiva prevede di effettuare dei controlli ripetuti nel tempo, misurando i valori di PSA, effettuando la risonanza magnetica multiparametrica, e ripetendo nel tempo le biopsie prostatiche. Vi sono, nel mondo, diversi protocolli e schemi che sono stati validati. Non ce ne uno migliore dell’altro e si differenziano solamente per il timing dei controlli. Quello che viene seguito di più a livello europeo è il PRIAS , quello più “vecchio” è quello della Università di Toronto (dove è nata la sorveglianza attiva), mentre quelli americani (sono diversi) seguono criteri più “stretti” per problematiche legali e assicurative. Più nel dettaglio, dopo la diagnosi di tumore della prostata a basso grado e dopo avere scelto di aderire alla sorveglianza attiva, vengono stabiliti dei momenti in cui gli esami diagnostici (PSA, risonanza e biopsia) vengono ripetute: ovvero entro il primo anno di sorveglianza, al quarto anno, al settimo anno, e ogni circa cinque anni, nel lungo termine (vedi tabella). L’unico esame che viene ripetuto con frequenza più alta è il dosaggio del PSA, che normalmente viene eseguito ogni quattro/sei mesi, in alcuni casi, soprattutto nei primi anni di sorveglianza attiva, può essere ripetuto anche ogni tre mesi. La risonanza magnetica multiparametrica, invece, viene solitamente ripetuta prima di ogni biopsia di controllo, e circa ad ogni anno. È importante notare che si possono ripetere sia la risonanza magnetica che la biopsia prostatica ad un anno in quanto è possibile che vi siano stati degli errori di campionamento nella biopsia diagnostica iniziale. Lo schema presentato nella figura riguarda una strategia standard, naturalmente è possibile variare la frequenza degli esami anche a seconda dell’età e di eventuali altri problemi di salute del paziente. In particolare, in pazienti molto anziani, o con malattie croniche invalidanti è possibile effettuare i controlli con frequenza meno ravvicinata. Parimenti, in caso di repentini innalzamenti del PSA, vengono solitamente anticipate sia la risonanza magnetica che la biopsia di controllo. Il ruolo della biopsia prostatica Storicamente, i controlli della sorveglianza attiva erano fondati sulla ripetizione della biopsia prostatica, fino anche a ripeterla ogni anno. La biopsia prostatica resta tutt’oggi fondamentale nella strategia di controllo nel tempo, in quanto è l’unico modo per sapere cosa stia avvenendo nella prostata, anche se viene, però, eseguita con cadenza triennale grazie all’utilizzo della risonanza magnetica multiparametrica che ne è un ottimo surrogato. L’obiettivo della biopsia prostatica di controllo è la diagnosi del tumore della prostata significativo, ovvero del gruppo 2 (GG2) o superiore (punteggio di Gleason 3+4 o maggiore), in modo tale da poter discutere le eventuali opzioni di trattamento con il paziente. Istologia di un tumore Gleason 3+3=6 Il ruolo della risonanza magnetica multiparametrica (PIRADS e PRECISE) La risonanza magnetica multiparametrica della prostata permette di effettuare una sorta di fotografia della ghiandola e di valutarne le caratteristiche radiologiche. Questo esame diagnostico è fondamentale sia quando esiste un sospetto di tumore della prostata, ovvero al momento della diagnosi, sia durante la sorveglianza attiva del tumore della prostata a basso grado, in quanto permette di valutare nel tempo l’evoluzione di eventuali aree sospette. Nel contesto della sorveglianza attiva esistono due principali indicatori nella risonanza magnetica multiparametrica: il punteggio PI-RADS, che indica la presenza di aree sospette per tumore nella ghiandola, e il punteggio PRECISE, che indica invece l’evoluzione di tali aree nelle risonanze ripetute nel tempo. Punteggi PI-RADS e PRECISE della risonanza magnetica multiparametrica della prostata in sorveglianza attiva. È bene ricordare che entrambi i punteggi sono su una scala da 1 a 5, tuttavia il punteggio PI-RADS indica quanto è probabile che in una determinata area della prostata sia presente un tumore significativo, mentre il punteggio PRECISE descrive il cambiamento di tali aree. Sono quindi due punteggi indipendenti, con significati clinici diversi. Attualmente esiste un dibattito scientifico sulla necessità di ripetere le biopsie prostatiche nel tempo qualora la risonanza magnetica multiparametrica risulti stabile. Certamente la probabilità di trovare un tumore significativo (GG2 o maggiore, ovvero <=Gleason 3+4) è bassa in caso di risonanza con punteggi di sospetto bassi (PI-RADS 1, 2, 3), oppure in caso di stabilità radiologica (PRECISE 1-3). Tuttavia, non esistono in letteratura scientifica studi sufficientemente convincenti per supportare l’omissione delle biopsie di controllo in caso di risonanza stabile, anzi, esistono dati che dimostrano che la probabilità di trovare un tumore con grade gruppo (GG) maggiore >2 sia di circa il 30% in caso di risonanza magnetica stabile nel tempo. Si consideri che, normalmente nella pratica clinica comune, si valuta di non eseguire la biopsia prostatica se il rischio di trovare un tumore significativo è inferiore al 10%. Cambiamenti della strategia di controllo Qualora alle biopsie di controllo sia evidenziato un tumore della prostata significativo (gruppo 2 o superiore, cioè Gleason 3+4 o maggiore), è opportuno discutere con l’urologo curante la necessità di effettuare ulteriori accertamenti in vista di un possibile intervento chirurgico (prostatectomia radicale) oppure radioterapia, oppure terapia focale. Tuttavia, qualora la percentuale di tumore della prostata significativa fosse molto contenuta, è possibile continuare la sorveglianza attiva, soprattutto se la risonanza magnetica ha un punteggio PI-RADS basso, oppure in presenza di valori di PSA bassi. In altri casi, al raggiungimento di una elevata età (tipicamente 80 anni), o qualora esistano altre malattie che precludono la possibilità di continuare con i controlli, si continua con una strategia di sola osservazione, anche nota come vigile attesa, ovvero continuando solamente a dosare il PSA con frequenza annuale, oppure smettendo di effettuare tutti i controlli. Risultati a lungo termine della sorveglianza attiva Circa il 50% dei pazienti che iniziano la sorveglianza attiva con un tumore della prostata di gruppo 1 vengono poi trattati a cinque/dieci anni dalla diagnosi, solitamente a causa di una biopsia di controllo che ha evidenziato un tumore di grado più elevato. Probabilità di diagnosi di tumore significativo (gruppo 2 o maggiore) alla biopsia di controllo in sorveglianza attiva, a seconda della variazione della risonanza magnetica in sorveglianza attiva (Adattato da Chesnut G, et al, Eur Urol, 2020, 77(4):501-507). Si noti che in questo studio la variazione è definita solo per il punteggio PI-RADS, senza considerare le dimensioni della lesione e senza usare il punteggio PRECISE. L’incidenza di eventi avversi, come metastasi, oppure mortalità causata dal tumore della prostata è molto bassa in sorveglianza attiva, in particolare, il rischio di metastasi e mortalità tumore-specifica è di circa 1% a 10 anni dalla diagnosi. I pazienti che iniziano la sorveglianza attiva con elevati valori di PSA oppure con una risonanza magnetica multiparametrica sospetta (PI-RADS 4 o 5) sono a maggiore rischio di progressione (per un tumore di più alto grado), quindi di avere necessità di trattamenti nel tempo. I risultati oncologici della chirurgia effettuata dopo un periodo di sorveglianza attiva terminato con la diagnosi di un tumore di grado 2 o più alto sono comparabili a quelli dei pazienti con le medesime caratteristiche ma che sono stati diagnosticati con un tumore dello stesso grado fin dall’inizio. Quindi ad oggi, non sembra “svantaggioso” trattare il tumore a basso rischio solo quando diventa più aggressivo.
- Oltre il PSA. Il ruolo potenziale della genetica
La prevenzione del tumore prostatico attrae da sempre l’interesse della comunità scientifica. A distanza di 27 anni dalla approvazione del PSA come potenziale strumento di screening nell’ambito del tumore prostatico da parte della Food and Drug Administration (FDA) ci sono stati ulteriori sviluppi? Qual è l’attuale stato dell’arte? Le nuove scoperte nel campo genetico quale ruolo hanno in questo ambito? Prostata e tumore: 1 uomo su 7 può esserne affetto. Il tumore prostatico è un problema sanitario di dimensioni più che considerevoli. Il rischio per un qualsiasi individuo di incorrere in una diagnosi di carcinoma prostatico nel corso della sua vita è stato stimato essere del 13%, mentre il rischio di morire per la stessa patologia si aggira attorno al 2,5%. Sulla base dei dati raccolti dal Global Cancer Observatory, al mondo nel 2018 sono stati registrati circa 1'276'000 casi di neoplasia prostatica, equivalenti al 7.1% di tutti i tumori diagnosticati in quell’anno a livello mondiale. Fig1: Il cancro prostatico insorge tipicamente nella parte più periferica (lontana dall’uretra) della ghiandola prostatica. Quanti tipi di prevenzione esistono? Quando si parla di tumori (quello prostatico compreso) e di prevenzione occorrerebbe premettere alcuni concetti di base. È infatti importante sottolineare che esistono diversi tipi di prevenzione: La Prevenzione Primaria di un tumore è la forma classica e principale di prevenzione: si focalizza sull'adozione di comportamenti e stili di vita in grado di evitare o ridurre l'insorgenza e lo sviluppo di una malattia o di un evento sfavorevole. L'obiettivo della prevenzione primaria dei tumori è quello di ridurre - o meglio evitare - l'adozione di comportamenti che rappresentano fattori di rischio e comporterebbero quindi l'insorgenza di tumori. La prevenzione Secondaria si riferisce alla diagnosi tempestiva di una patologia, che permette di intervenire precocemente sulla stessa, ma non evitando o riducendo la probabilità della sua comparsa. La precocità di intervento aumenta le opportunità terapeutiche, migliorandone la progressione e riducendo gli effetti negativi. Sostanzialmente si tratta di individuare il tumore tra l'insorgenza biologica dello stesso e la manifestazione dei primi sintomi. All’interno del concetto di prevenzione Secondaria sono contenuti i due concetti di Screening di popolazione e quello di Diagnosi Precoce. Esiste anche quella che viene definita Prevenzione Terziaria (di cui non parleremo nella nostra trattazione), relativa non tanto alla prevenzione della malattia in sé, quanto ai suoi esiti più complessi. La prevenzione in questo caso è quella delle complicanze, delle probabilità di recidive di una pregressa malattia. È dunque legata al controllo delle terapie e della loro corretta assunzione, nonché alla gestione dei deficit e delle disabilità funzionali consequenziali ad uno stato patologico o disfunzionale. Prevenzione Primaria: Stile di vita, nutrizione e farmaco-prevenzione. Una grossa revisione della letteratura scientifica comprendente 176 meta-analisi riguardanti il tipo di dieta, il peso corporeo, l’attività fisica ed il rischio di cancro alla prostata non è riuscita a fornire delle evidenze scientifiche di qualità. Una dieta sana ed uno stile di vita attivo sono da considerarsi raccomandabili per la propria salute in generale, ma a quanto pare non sembrano diminuire il rischio di neoplasia prostatica. Grande interesse in passato è stato rivolto agli integratori alimentari (i lavori scientifici più noti hanno riguardato la supplementazione con Selenio e Vitamina E), ma ancora una volta, nessuno studio ha evidenziato un chiaro beneficio, anzi: in uno studio risalente al 2011, la supplementazione con vitamina E sembrava associarsi paradossalmente ad un maggiore rischio di insorgenza di neoplasia prostatica. Farmaci come la Finasteride e la Dutasteride, utilizzati normalmente nell’ambito terapeutico dell’iperplasia prostatica benigna, potrebbero essere utilizzati anche con il fine di prevenire la proliferazione neoplastica a livello della ghiandola prostatica. Nella pratica clinica la farmaco-prevenzione non è mai realmente decollata: alcuni studi scientifici hanno sollevato alcune problematiche relate agli effetti collaterali legati all’assunzione di tali molecole (disfunzioni sessuali ed un paradossale più elevato rischio di insorgenza di neoplasie prostatiche di aggressività elevata). Sempre in questo ambito, affascinante l’ipotesi introdotta da uno studio del 2016 che considera l’assunzione sempre più diffusa delle statine (farmaco utilizzato nel trattamento dell’ipercolesterolemia) come possibile responsabile del recente decremento della mortalità del cancro prostatico. In ultima analisi, allo stato attuale, non sono raccomandate specifiche misure preventive o dietetiche per ridurre il rischio di sviluppare il cancro alla prostata. Prevenzione Secondaria: cosa dicono le linee guida più aggiornate? Come precedentemente esposto, in questo capitolo sono racchiusi due concetti differenti. Lo screening di popolazione si definisce come “esame sistematico di uomini asintomatici” ed è una politica solitamente sostenuta dalle autorità sanitarie. Al contrario, la diagnosi precoce consiste nell’identificazione di casi particolari/individuali ed è normalmente richiesta ed avviata dal paziente o dal suo medico. Entrambi i concetti sono storicamente fondati su due strumenti fondamentali: l’esplorazione digito-rettale (ER) nell’ambito della visita urologica ed il dosaggio plasmatico del PSA. Lo screening di popolazione a mezzo del PSA per il cancro prostatico è uno degli argomenti più controversi del panorama Urologico. Al giorno d’oggi lo screening di popolazione per la prevenzione del carcinoma prostatico non è previsto del Sistema Sanitario Nazionale Italiano. Le linee guida più aggiornate della European Association of Urology (EAU) ribadiscono la non proponibilità dell’uso del PSA nello screening del carcinoma prostatico, mentre è meno controverso il suo uso nella diagnosi precoce, associato alla ER, nel singolo paziente ben informato. Screening e diagnosi precoce: quali strumenti oltre al PSA? È stato dimostrato che basare lo screening e la diagnosi precoce del cancro prostatico solamente sul dosaggio del PSA conduce alla esecuzione di biopsie prostatiche non necessarie ed alla diagnosi di neoplasie indolenti e non significative dal punto di vista clinico. Il futuro della prevenzione secondaria della neoplasia prostatica si basa su quattro pilastri: i derivati del PSA, i markers urinari, la risonanza magnetica prostatica multiparametrica (mpMRI) ed i polimorfismi genetici. Rispetto al solo PSA totale, la combinazione del PSA totale stesso con il rapporto percentuale fra PSA libero e PSA totale contribuisce a una maggiore specificità per la diagnosi di cancro alla prostata. Su tale rapporto (ed altre componenti, sempre dosabili attraverso un prelievo di sangue) sono infatti basati 2 test chiamati 4kScore e Prostate Health Index (PHI). I test in questione sono opzioni disponibili in commercio per aiutare nelle decisioni iniziali (candidare oppure no un paziente alla biopsia prostatica) o ripetute sulla biopsia prostatica (per i pazienti in passato già sottoposti ad una biopsia prostatica, risultata negativa). PCA3 è un marker urinario attualmente disponibile per guidare decisioni ripetute sulla biopsia prostatica. Sebbene PCA3 da solo abbia una capacità predittiva inferiore di malattia clinicamente significativa e richieda la raccolta di urina dopo l'esplorazione digito-rettale, può essere combinato con altri marcatori dosabili a livello urinario come TMPRSS2:ERG per migliorarne le prestazioni. La mpMRI è annoverabile tra le armi a disposizione del clinico per una diagnosi precoce del tumore prostatico? Walllis et al. (“Role of mpMRI of the prostate in screening for prostate cancer”), hanno analizzato questa possibilità, sostenendo che fra gli uomini con PSA elevato mai sottoposti in precedenza ad una biopsia prostatica, la mpMRI ha dimostrato risultati più che promettenti sia nell’identificare sia nell’escludere una neoplasia prostatica. Ci auguriamo che gli avanzamenti tecnologici di cui siamo spettatori possano rendere uno screening basato sulla mpMRI possibile nel futuro. Al momento sono disponibili pochi dati per supportare un ruolo per i polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs, vedi dopo) o altri marcatori sperimentali. Genetica e cancro prostatico. Quale relazione? Numerosi studi hanno valutato la relazione tra genetica e cancro prostatico studiando due tipi di mutazioni genetiche: quelle dei singoli geni e quelle degli SNPs (Single Nucleotide Polymorphisms, mutazioni puntiformi del genoma). Attualmente sono stati identificati oltre 100 SNPs associati al cancro prostatico, studiati in popolazioni molto vaste. Sebbene numerosi fra questi siano stati opportunamente validati e confermati come predittori di malattia, nessuno di loro è stato preso in considerazione come punto di riferimento per elaborare delle nuove raccomandazioni riguardanti lo screening del tumore prostatico, per via del limitato valore predittivo. Diversi studi hanno dimostrato un aumento del rischio di cancro alla prostata connesso a mutazioni di importanti geni responsabili dei meccanismi di riparazione del DNA. I geni da ricordare, in quanto fra i più studiati in questo abito, sono BRCA2, ATM, CHEK2, BRCA1, RAD51D, e PALB2. Al giorno d’oggi la genetica ha un ruolo nella prevenzione? Le linee guida europee riportano che attualmente in commercio esistono e sono disponibili diversi pannelli di screening per valutare i principali geni di rischio. Ciò, assieme alle informazioni sopra riportate sembrerebbe in grado di costituire una opportunità per rimodellare il futuro della prevenzione secondaria del cancro prostatico. Sempre più forte è infatti l’evidenza scientifica che supporta l’implementazione anche nel contesto della diagnosi precoce del cancro alla prostata del counselling genetico e dei test genetici. Allo stato attuale, però, nello specifico ambito dello screening e diagnosi precoce (nonostante la fiorente letteratura scientifica riguardante l’argomento) rimane ancora non chiaro quali test genetici utilizzare e qual è l’identikit del paziente che potrebbe beneficiare dei test in questione. Ad ogni modo, le più recenti linee guida della European Association of Urology (EAU) offrono delle raccomandazioni generali (dunque non rivolte allo specifico ambito dello screening e diagnosi precoce), che consigliano in quali pazienti avrebbe senso ricercare le mutazioni più conosciute. Allo stato attuale, per i seguenti soggetti dovrebbe essere preso in considerazione il test genetico in grado di ricercare mutazioni nei geni responsabili della riparazione del DNA, BRCA 1/2: Tabella 1 (I Candidati al test genetico per la ricerca di mutazioni nei geni BRCA 1 e BRCA 2) L’IMPACT Study è uno studio assai recente (ancora in corso), da cui deriva una interessante applicazione concreta dei concetti esposti sino ad ora. Se è vero che non è indicato uno screening a mezzo del PSA “a tappeto”, esiste una specifica popolazione di uomini più a rischio per la quale lo screening con PSA ha senso? I risultati preliminari dello studio IMPACT dicono di sì, riferendosi specificamente alla popolazione dei soggetti portatori delle mutazioni BRCA2, testati per i motivi sopra esposti (vedi punti numero 3 e 4 dell’elenco puntato sopra esposto) e risultati positivi. Per tali soggetti, raccomandano gli autori, deve essere garantito uno screening sistematico basato sul dosaggio del PSA. Fig 2: La pagina web del sito ClinicalTrials.gov dell’IMPACT study, ancora in corso, il cui ultimo aggiornamento risale al Febbraio 2021. Il ruolo della genetica nel vasto campo del carcinoma prostatico è senza dubbio vasto ed ha risvolti determinanti in numerosi aspetti della stessa patologia (etiologia, diagnosi, terapia). Ciò che è certo allo stato attuale è che dal futuro ci si potranno aspettare sempre più lavori scientifici riguardanti la relazione tra genetica e prevenzione della neoplasia prostatica, aventi il fine ultimo di sviluppare nuovi paradigmi di screening e diagnosi precoce.
- PHI: Prostate Health Index (indicatore di salute prostatico)
Il PHI (Prostate Health Index) (indicatore di salute prostatico) è un indicatore (un biomarcatore) che viene calcolato mediante la misurazione nel sangue di un isoforma (un precursore) del PSA (antigene prostatico specifico) e cioè il (-2)proPSA. Il (-2)proPSA è il peptide leader con due aminoacidi della proteina PSA composta di 237 aminoacidi (33kD). Il (-2)proPSA è una isoforma del proPSA, derivante dal preproPSA, entrambi precursori del PSA libero che non vengono trasformati in PSA. Il proPSA nativo è costituito da un propeptide leader di 7 amminoacidi (-7)proPSA e le forme tronche di questo propeptide sono rappresentate da (-5)proPSA, contenente leucina-isoleucina-leucina-serina-arginina attaccati al -NH2 terminale, (-4)proPSA contenente isoleucina-leucina-serina-arginina attaccate al -NH2 terminale e il (-2)proPSA contenente serina-arginina attaccata al -NH2 terminale. Le forme di proPSA più tronche sono più resistenti all'attivazione da parte della kallikrein 2 umana (hK2) e della tripsina che avrebbero il ruolo di convertire il proPSA in PSA. Di conseguenza, il (-2) proPSA non viene attivato Funzione e significato biologico Il (-2)proPSA ha ottenuto la massima attenzione quando è stato ritrovato maggiormente nel tessuto canceroso prostatico; la sua concentrazione aumenta nel siero dei pazienti con cancro della prostata (PCa). In studi condotti su maschi affetti da PCa, il proPSA migliora la specificità per individuazione del cancro. Sia il proPSA costituito dalla somma di tutte le forme tronche che il solo (-2)proPSA sembrano avere proprietà di maggiore specificità sebbene il proPSA possa essere presente in concentrazioni superiori nell’intervallo di PSA tra 4-10 ng/mL mentre il (-2)proPSA sembrerebbe avere performance superiori per l’individuazione del tumore nel range di PSA compreso tra 2-4 ng/ml. Utilizzo clinico La misura sierica del [-2] proPSA, se impiegato come unico marcatore, non ha prestazioni migliori del rapporto PSA free (fPSA) e totale (tPSA) oggi in uso. Per migliorare la prestazione clinica, è stata introdotta la determinazione del (-2)proPSA combinata a quella del tPSA e fPSA in un algoritmo per fornire il Prostate Health Index (phi) e calcolato secondo la relazione: phi = (p2PSA/fPSA) * √ tPSA. I valori di phi hanno migliorato significativamente la specificità clinica relativa del tPSA e del f/tPSA per l’identificazione del PCa. Al 95% di sensibilità clinica, la specificità clinica del phi per valori di PSA totale compresi tra 2 e 10 ng/mL è del 18.2%, mentre quella del f/tPSA è del 6,6%. Il miglioramento della specificità clinica del phi nei confronti del f/tPSA rappresenta un sostanziale avanzamento nelle indagini eseguite con l’intento di aiutare a distinguere il PCa dalle condizioni prostatiche benigne in uomini con tPSA tra 2 e 10 ng/ml ed esplorazione digitorettale (DRE) non sospetta di neoplasia. Diversi lavori hanno dimostrato anche l’associazione dell’incremento del (-2)proPSA e dell’indice phi con l’aggressività del PCa, e, più recentemente, l’impiego dell’indice phi è stato raccomandato come ausilio nella valutazione di pazienti sottoposti a biopsie ripetute con esito negativo o arruolati in programmi di sorveglianza attiva. Sono riportate tre fasce di stratificazione del rischio sulla probabilità di tumore alla prostata (tabella) poiché è stato dimostrato che il proPSA risulta più accurato. Il phi è stato approvato dall’FDA (FOOD AND DRUG AMMINISTRATION) (USA) ed è entrato dal 2015 nelle linee guida sul tumore della prostata della European Association of Urology come test che ha lo scopo di ridurre il numero di biopsie non necessarie negli uomini testati con il PSA, applicazione dimostrata da diversi lavori. Uno studio condotto sulla popolazione asiatica, ma con risultati che si sono mostrati simili nei caucasici, ha riportato che, fissando la sensibilità al 90%, il phi mostrava una specificità del 58% rispetto al 17% del PSA, riducendo del 49% le biopsie non necessarie. Indicazioni Se il valore del PSA è compreso tra 2 e 10 ng/ml, si raccomanda l’uso del phi (approvato dalla FDA al fine di ridurre biopsie non necessarie). Uno studio multicentrico del 2016 ha dimostrato come il (-2)proPSA e il phi abbiano una maggiore performance diagnostica nell’individuazione del cancro nel range da 1.6 a 8 ng/ml (calibrato con lo standard WHO) o nel range da 2 a 10 ng/ml (calibrato con Hybritech) comparata al tPSA e fPSA alla prima e alla ripetuta biopsia e nel predire il tumore in uomini con meno di 65 anni. È stato evidenziato da un recente lavoro del 2017 che un phi score pari a 27 corrisponde al 90% di sensibilità e al 31% di specificità nell’individuazione del tumore. Inoltre i range di riferimento proposti per il phi dovrebbero essere aggiustati sulla base dell’etnia considerata. Altri studi studi hanno inoltre messo in evidenza come l’aumento del phi correli con l’aggressività del PCa. Determinazione Variabilità pre-analitica del soggetto: Non occorre alcuna particolare preparazione del paziente, ma (come per il tPSA e per il fPSA occorre eseguire il prelievo di sangue prima delle manipolazioni prostatiche quali DRE, massaggio prostatico, ecografia prostatica transrettale e biopsia prostatica, che hanno dimostrato di causare aumenti transitori di queste molecole. Si consiglia pertanto un intervallo di almeno quattro-sei settimane fra le manipolazioni della ghiandola e il prelievo. del campione Il campione è soggetto a diversi problemi preanalitici. Il siero, infatti, deve essere separato rapidamente dai globuli rossi, altrimenti, probabilmente a causa dell’azione di enzimi proteolitici che agiscono sulle altre forme di proPSA, la concentrazione di (-2)proPSA aumenta. In particolare, è suggerito dall’inserto di prodotto, che il siero venga separato in massimo 3 ore dal prelievo che viceversa può causare un incremento del 10% della concentrazione di (-2)proPSA. Per tempi di conservazione fino a 5 ore a temperatura ambiente e non separato dal coagulo indicano un aumento mediano dei valori di phi del 15,5%, ma con incrementi, in singoli casi, anche del 35%– 40%. Conseguentemente una sovrastima del valore di (-2)proPSA, potrebbero avere conseguenze importanti per il paziente. È stato dimostrato che è possibile stabilizzare le concentrazioni di (-2)proPSA utilizzando una provetta con gel separatore oppure ponendo il campione in ghiaccio dopo il prelievo. Entrambe le soluzioni sembrano efficaci nell’intervallo di tempo di 5 ore ma non sono esenti da altri problemi. In particolare, l’uso del gel separatore è risultato incompatibile con la misura di tPSA e fPSA, introducendo una sottostima di ∼5%, che comporta la conseguente sovrastima nel calcolo del phi. Una possibilità alternativa è quella di calcolare il phi utilizzando i valori di tPSA e fPSA misurati sul siero da provetta senza separatore e quelli del (-2)proPSA ottenuti da provetta con separatore di siero. Questo approccio richiede però un maggiore quantitativo di sangue e costi più elevati per il prelievo. La conservazione del campione in ghiaccio invece rallenta la formazione del coagulo e potrebbe rendere più difficile la separazione. In ogni caso, mentre il tPSA rimane stabile, il fPSA non lo è con tutti i metodi disponibili in commercio e tende a diminuire con la conservazione e anche entro le 5 ore a temperatura ambiente non sono sempre riproducibili. Standard internazionale di riferimento Il calibratore internazionale di riferimento per il p2PSA è Access Hybritech. È importante ricordare che per la determinazione del tPSA e del fPSA esiste, oltre che il calibratore Hybritech, anche il calibratore WHO 96/670 e 96/668, rispettivamente. Per ottenere le prestazioni di sensibilità e specificità cliniche indicate per il calcolo del phi score è indispensabile che le determinazioni di tPSA e fPSA vengano eseguite con la stesso tipo di calibrazione in quanto non sono interscambiabili. Refertazione Come avviene per il fPSA nel calcolo del rapporto f/tPSA, non è di alcun interesse la refertazione del solo dato di [-2]proPSA se non nel contesto del calcolo del phi. La refertazione dell’indice viene proposta in due modi: per fasce di rischio o per cut-off. E’ evidente che, essendo il phi di ausilio al clinico e dovendo essere valutato insieme ad altri parametri diagnostici e all’anamnesi del paziente, l’utilizzo del cut-off può essere confondente: lo stesso valore di indice può essere interpretato in maniera differente in pazienti con diversa storia anamnestica. Deve anche essere chiaro che la scelta di un determinato cut-off è sempre un compromesso tra i valori di sensibilità e specificità cliniche che si vogliono ottenere e che possono essere differenti a seconda del contesto territoriale. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Mikolajczyk SD, Catalona WJ, Evans CL, et al. Proenzyme forms of prostate-specific antigen in serum improve the detection of prostate cancer. Clin Chem. 2004 Jun;50(6):1017-25 Mikolajczyk SD, Millar LS, Wang TJ, et al. A precursor form of prostate-specific antigen is more highly elevated in prostate cancer compared with benign transition zone prostate tissue. Cancer Res 2000;60:756-9 -De Vries SH, Raaijmakers R, Blijenberg BG, et al. Additional use of [-2] precursor prostate-specific antigen and "benign" PSA at diagnosis in screen-detected prostate cancer. Urology 2005;65:926-30 Sokoll LJ, Wang Y, Feng Z, et al. [-2]proenzyme prostate specific antigen for prostate cancer detection: a national cancer institute early detection research network validation study. J Urol 2008 Access Hybritech p2PSA Instruction for Use, Beckman Coulter Inc, WBA80984B, 2015 Brian V. Le, Christopher R. Griffin, et al. [-2]Proenzyme Prostate Specific Antigen is More Accurate Than Total and Free Prostate Specific Antigen in Differentiating Prostate Cancer From Benign Disease in a Prospective Prostate Cancer Screening Study. J Urol. 2010;183:1355-9 Loeb S, Shin SS, Broyles DL et al. Prostate Health Index improves multivariable risk prediction of aggressive prostate cancer. BJU Int. 2017 Jul;120(1):61-68. doi: 10.1111/bju.13676. Epub 2016 Nov 22 Roobol MJ, Vedder MM, Nieboer D et al Comparison of Two Prostate Cancer Risk Calculators that Include the Prostate Health Index. Eur Urol Focus. 2015 Sep;1(2):185-90 de la Calle C, Patil D, Wei JT et al, Multicenter Evaluation of the Prostate Health Index to Detect Aggressive Prostate Cancer in Biopsy Naïve Men. J Urol. 2015 Jul;194(1):65-72 Tan LG1, Tan YK2, Tai BC et al. Prospective validation of %p2PSA and the Prostate Health Index, in prostate cancer detection in initial prostate biopsies of Asian men, with total PSA 4-10 ng ml-1. Asian J Androl. 2017 May-Jun;19(3):286-90 Boegemann M, Stephan C, Cammann H, et al. The percentage of prostate-specific antigen (PSA) isoform [-2]proPSA and the Prostate Health Index improve the diagnostic accuracy for clinically relevant prostate cancer at initial and repeat biopsy compared with total PSA and percentage free PSA in men aged ≤65 years. BJU Int. 2016 Jan;117(1):72-9 White J, Shenoy BV, Tutrone RF. Clinical utility of the Prostate Health Index (phi) for biopsy decision management in a large group urology practice setting. Prostate Cancer Prostatic Dis. 2018 Apr;21(1):78-84 Chiu PK1, Ng CF2, Semjonow A3, Zhu Y4, et al. A Multicentre Evaluation of the Role of the Prostate Health Index (PHI) in Regions with Differing Prevalence of Prostate Cancer: Adjustment of PHI Reference Ranges is Needed for European and Asian Settings. Eur Urol. 2019 Apr;75(4):558-61
- Diagnosis and treatment of prostate cancer: what is new?
Prostate cancer (PCa) is the most common solid organ malignancy among American men (1). The probability to develop PCa in a whole life between 2012 and 2014 in United States was 1 out of 9 and 29,430 is the estimated number of deaths for PCa in US during 2018. The scenario for diagnosis and treatment of prostate cancer has greatly changed in the last 10-5 years. So far, the use of prostate-specific antigen (PSA) and multiparametric magnetic resonance (followed by prostatic biopsies) represents the most accepted diagnostic pathway for Pca. In cancer care, different types of doctors - including medical oncologists, surgeons, and radiation oncologists - often work together to create an overall treatment plan that may combine different type of treatments to treat the cancer. Diagnosis Prostate cancer (PCa) is the most common solid organ malignancy among American men (1). The probability to develop PCa in a whole life between 2012 and 2014 in United States was 1 out of 9 and 29,430 is the estimated number of deaths for PCa in US during 20181. So far, the use of prostate-specific antigen (PSA) followed by random biopsies represents the most accepted diagnostic pathway for Pca (2). The use of these screening methods is, nowadays, one of the most controversial topic in urology. Evidences regarding benefit originating from PCa PSA-based screening are contradictory (3,4). The most updated Cochrane review demonstrated that PCa screening did not significantly decrease prostate cancer-specific mortality up to 10 years (5). On the other hand, US Preventive Services Task Force recommendations against PSA screening (6), issued in 2012, was related with a subsequent increase in the incidence of high grade and locally advanced tumors (7). Results from two meta-analyses of subsequent randomized studies demonstrated that PSA screening leads to a small reduction in the risk of dying from prostate cancer over 10 years (8,9). Taken together, these findings led USPSTF to update its recommendation in 2018, now allowing men aged between 55 and 69 years old a choice to undergo PSA-based screening (10). This also led the European Association of Urology in supporting the use of PSA as a screening tool in 2019 (11) The current gold-standard in PCa diagnosis, represented by 12-cores systematic random biopsy (TRUS-Bx)(12), is affected by several sampling errors which account for the most part of failure to detect clinically significant prostate cancer (csPCa), imprecise tumor risk stratification and detection of clinically insignificant PCa13 with a significant rate of false negative (14). Even though during the last few decades there has been a rapid decline in PCa mortality (1), this seemed to be only in part related to the extensive use of PSA and random biopsies but also due to other factors as, for example, advances in therapeutic strategies (15). Literature is concordant instead in stating that the widespread use of these diagnostic strategies has led to overdiagnosis (up to 45%) and overtreatment of low volume and indolent tumors (3,16). With the aim to improve the diagnostic pathway of PCa, both providing early diagnosis of localized diseases and avoiding overdiagnosis of non-significant cancers, there has been growing interest in multiparametric magnetic resonance imaging of the prostate (mpMRI)(Figure 1). This imaging method was initially introduced in the 1980s with staging purposes (17) and has recently emerged as the most promising diagnostic modality which, compared to the other available tools, has the ability to directly assess the presence of areas likely to harbor significant cancer within the prostatic gland, defining the size, the location and the stage and lastly guiding a biopsy. In 2019, PSA and mpMRI are the best indicators to suspect the presence of a prostate cancer and guide to perform a prostate biopsy which remain the only tool to diagnose a prostate cancer. Figure 1 : standardized MRI Reporting Scheme for mpMRI of the prostate Treatment In cancer care, different types of doctors—including medical oncologists, surgeons, and radiation oncologists—often work together to create an overall treatment plan that may combine different type of treatments to treat the cancer. This is called a multidisciplinary team. Cancer care teams include a variety of other health care professionals, such as palliative care experts, physician assistants, advanced nurse practitioners, oncology nurses, social workers, pharmacists, counselors, dietitians, physical therapists, and others (18). Descriptions of the most common treatment options for prostate cancer are reported below. Treatment options and recommendations depend on several factors, including the type and stage of cancer, possible side effects, and the patient’s preferences and overall health. Early-stage prostate cancer (stages I and II). Early-stage prostate cancer usually grows very slowly and may take years to cause any symptoms or other health problems, if it ever does at all. As a result, active surveillance may be recommended. Radiation therapy (external-beam or brachytherapy) or surgery may also be suggested, as well as clinical trials. For men with a higher Gleason score, the cancer may be faster growing, so radical prostatectomy and radiation therapy are often appropriate. ASCO, the American Urological Association, American Society of Radiation Oncology, and the Society of Urologic Oncology recommend that men with high-risk early-stage prostate cancer that has not spread to other areas of the body should receive radical prostatectomy or radiation therapy with androgen-deprivation therapy (ADT) as standard treatment options. Men with locally advanced prostate cancer who choose not to have surgery should not have systemic therapy with either ADT or chemotherapy before surgery. Men with locally advanced prostate cancer who choose radiation therapy should receive ADT as the standard of care. ADT given for 24 months is widely accepted as the least amount of time needed to control the disease, but 18 months may also be enough. Adjuvant or salvage radiation therapy is treatment that is given after radical prostatectomy. It is a standard of care for men with extraprostatic extension, regardless of Gleason score and margin status (positive or negative). Having positive margins means that cancer cells were found in margins of the tissue removed during surgery that surrounded the prostate. Having positive margins does not necessarily mean that cancer was left behind during surgery. The role of adjuvant radiation therapy for men who have microscopic cancer in their lymph nodes is still being studied. Prostate cancer treatments can cause side effects, such as erectile dysfunction, which is the inability to get and maintain an erection, and incontinence, which is the inability to control urine flow or bowel function. These treatments for prostate cancer may seriously affect a man’s quality of life. In addition, many prostate cancers grow slowly and cause no symptoms or problems. For this reason, many men may consider delaying cancer treatment rather than starting treatment immediately. This is called active surveillance. During active surveillance, the cancer is closely monitored for signs that it is worsening. If the cancer is found to be worsening, treatment will begin. Active surveillance is usually preferred for men with low-risk prostate cancer that can be treated with surgery or radiation therapy if it shows signs of getting worse. ASCO endorses recommendations from CancerCare Ontario concerning active surveillance, which recommend active surveillance for most patients with a Gleason score of 6 or below, with cancer that has not spread beyond the prostate. Sometimes, active surveillance may be an option for men with a Gleason score of 7. There is also growing use of genomic testing to help determine whether active surveillance is the best choice for a man with prostate cancer. ASCO encourages the following testing schedule for active surveillance: A PSA test every 3 to 6 months, a DRE at least once every year, another prostate biopsy within 6 to 12 months, then a biopsy at least every 2 to 5 years. A patient should receive treatment if the results of the tests done during active surveillance show signs of the cancer becoming more aggressive or spreading, causes pain, or blocks the urinary tract. Local treatments get rid of cancer from a specific, limited area of the body. Such treatments include surgery and radiation therapy. For men diagnosed with early-stage prostate cancer, local treatments may get rid of the cancer completely. If the cancer has spread outside the prostate gland, other types of treatment called systemic treatments may be needed to destroy cancer cells located in other parts of the body. Surgery involves the removal of the prostate and some surrounding healthy tissue during an operation. The type of surgery depends on the stage of the disease, the man’s overall health, and other factors. A radical prostatectomy is the surgical removal of the entire prostate and the seminal vesicles. Lymph nodes in the pelvic area may also be removed. This operation has the risk of affecting sexual function. Nerve-sparing surgery, when possible, increases the chance that a man can maintain his sexual function after surgery by avoiding surgical damage to the nerves that allow erections and orgasm to occur. Orgasm can occur even if some nerves are cut because these are 2 separate processes. Urinary incontinence is also a possible side effect of radical prostatectomy. To help resume normal sexual function, men can receive drugs, penile implants, or injections. Sometimes, another surgery can fix urinary incontinence. Robotic or laparoscopic prostatectomy (figure 2) is possibly much less invasive than a radical prostatectomy and may shorten recovery time. A camera and instruments are inserted through small keyhole incisions in the patient’s abdomen. The surgeon then directs the robotic instruments to remove the prostate gland and some surrounding healthy tissue. In general, robotic prostatectomy causes less bleeding and less pain, but the sexual and urinary side effects can be similar to those of a radical (open) prostatectomy. Talk with your doctor about whether your treatment center offers this procedure and how it compares with the results of the radical (open) prostatectomy. Typically, younger or healthier men may benefit more from a prostatectomy. Younger men are also less likely to develop permanent erectile dysfunction and urinary incontinence after a prostatectomy than older men. Figure 2: Robot da Vinci Radiation therapy is the use of high-energy rays to destroy cancer cells.. A radiation therapy regimen, or schedule, usually consists of a specific number of treatments given over a set period of time. External-beam radiation therapy is the most common type of radiation treatment. The radiation oncologist uses a machine located outside the body to focus a beam of x-rays on the area with the cancer. Some canc er centers use conformal radiation therapy (CRT), in which computers help precisely map the location and shape of the cancer. CRT reduces radiation damage to healthy tissues and organs around the tumor by directing the radiation therapy beam from different directions to focus the dose on the tumor. One method of EBRT used to treat prostate cancer is called hypofractionated radiation therapy. This is when a person receives a higher daily dose of radiation therapy given over a shorter period instead of lower doses given over a longer period. According to recommendations from ASCO, American Society for Radiation Oncology, and American Urological Association, hypofractionated radiation therapy may be an option for the following people with early-stage prostate cancer that has not spread to other parts of the body. People who receive hypofractionated radiation therapy may have a slightly higher risk of some short-term side effects after treatment compared with those who receive regular EBRT. This can include gastrointestinal side effects. Based on current research, people who receive hypofractionated radiation therapy are not at a higher risk of side effects in the long term. Brachytherapy, or internal radiation therapy, is the insertion of radioactive sources directly into the prostate. These sources, called seeds, give off radiation just around the area where they are inserted and may be left for a short time (high-dose rate) or for a longer time (low-dose rate). Low-dose-rate seeds are left in the prostate permanently and work for up to 1 year after they are inserted. However, how long they work depends on the source of radiation. High-dose-rate brachytherapy is usually left in the body for less than 30 minutes, but it may need to be given more than once. Brachytherapy may be used with other treatments, such as external-beam radiation therapy and/or ADT. Intensity-modulated radiation therapy (IMRT). IMRT is a type of external-beam radiation therapy that uses CT scans to form a 3D picture of the prostate before treatment. A computer uses this information about the size, shape, and location of the prostate cancer to determine how much radiation is needed to destroy it. With IMRT, high doses of radiation can be directed at the prostate without increasing the risk of damaging nearby organs. Proton therapy. Proton therapy, also called proton beam therapy, is a type of external-beam radiation therapy that uses protons rather than x-rays. At high energy, protons can destroy cancer cells. Current research has not shown that proton therapy provides any more benefit to men with prostate cancer than traditional radiation therapy. It is also more expensive. Radiation therapy may cause side effects during treatment, including increased urinary urge or frequency; problems with sexual function; problems with bowel function, including diarrhea, rectal discomfort or rectal bleeding; and fatigue. Most of these side effects usually go away after treatment. To help resume normal sexual function, men can receive drugs, penile implants, or injections. While uncommon, some side effects of radiation therapy may not show up until years after treatment. The scenario for diagnosis and treatment of prostate cancer has greatly changed in the last 10-5 years. A continuous update in the diagnostic tools and treatment options is extremely necessary. References 1 Siegel RL, Miller KD, Jemal A. Cancer statistics, 2018. CA Cancer J Clin 2018; 68: 7–30. 2 European Urology Association. EAU Guidelines on Prostate Cancer. 2019.www.uroweb.org/guideline/prostate-cancer. 3 Schröder FH, Hugosson J, Roobol MJ, Tammela TLJ, Ciatto S, Nelen V et al. Screening and prostate-cancer mortality in a randomized European study. N Engl J Med 2009; 360: 1320–8. 4 Andriole GL, Grubb III RL, Buys SS, Chia D, Church TR, Fouad MN et al. Mortality results from a randomized prostate-cancer screening trial. N Engl J Med 2009; 360: 1310–1319. 5 Ilic D, Hoffman RM, Neuberger M, Djulbegovic M, Dahm P. Screening for Prostate Cancer. Cochrane Database Syst Rev 2013; : 2013–2019. 6 Moyer VA. Screening for Prostate Cancer: U.S. Preventive Services Task Force Recommendation Statement. Ann Intern Med 2012; 157. 7 Fleshner K, Carlsson S V., Roobol MJ. The effect of the USPSTF PSA screening recommendation on prostate cancer incidence patterns in the USA. 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- HOLEP: il laser per tutte le dimensioni prostatiche
Enucleazione endoscopica (transuretrale) di adenoma prostatico (HOLEP) mediante LASER. La enucleazione di adenoma prostatico con laser ad Holmio (HOLEP= Holmio Laser Enucleation of the Prostate) è una metodica endoscopica, mediante la quale l’adenoma non viene resecato come nella TURP, ma enucleato mediante scollamento dalla capsula prostatica attraverso l’utilizzo di un laser. La tecnica di enucleazione, indipendentemente dalla fonte di energia utilizzata (laser e anche non laser) consiste appunto nell’asportazione (enucleazione) per via trans-uretrale, in 2 o tre lobi prostatici, di tutto adenoma centrale (cioè la causa l’ostruzione al deflusso dell’urina) (figura 1). La enucleazione è diversa dalla tecnica di vaporizzazione che prevede la “bruciatura” di tutto (o in parte) il tessuto adenomatoso, causa dell’ostruzione. La vaporizzazione mediante laser ha il grosso limite di non permettere il prelievo di tessuto per l’esame istologico, richiede dei tempi operatori molto lunghi, e non è conveniente per il trattamento di grosse prostate. Con la enucleazione i lobi vengono, quindi, “sgusciati” seguendo un piano anatomico tra adenoma e ghiandola periferica-capsula e vengono poi sospinti in vescica. Successivamente viene introdotto un morcellatore (una specie di frullatore), cioè uno strumento che permette l’asportazione del tessuto prostatico enucleato che viene poi inviato per la successiva analisi anatomo-patologica. L'intervento dura di solito da 40 a 60 minuti, a seconda delle dimensioni dell'adenoma. Al termine della procedura viene posizionato un catetere vescicale. La scarsa invasività dell’intervento permette la rimozione del catetere vescicale dopo sole 24-48 ore. Questa tecnica è associata a numerosi vantaggi quali: • possibilità di operare endoscopicamente (senza tagli) pazienti con prostate di qualsiasi grandezza; • possibilità di trattare contemporaneamente nello stesso intervento calcoli vescicali; • riduzione delle perdite ematiche e riduzione delle trasfusioni; • riduzione delle complicanze intra e perioperatorie; • riduzione dei tempi di cateterizzazione (1-2 giorni); • degenze più brevi (1-2 giorni); • riduzione dei tassi di re-intervento (1%).
- Come accorgersi di un problema prostatico: ripartiamo da zero
Con l’obiettivo di apprendere in modo semplice e chiaro le informazioni fondamentali, vi proponiamo di seguito tre tabelle relative alle patologie benigne (ipertrofia prostatica, prostatite, calcolosi prostatica) ed una al tumore della prostata, che riassumono l’età tipica della loro insorgenza, le terapie applicate e i rischi a cui si va incontro se trascurate, oltre una tabella dedicata al PSA e ai suoi valori, prima e dopo l’insorgenza di un tumore. Scarica tutto articolo qui sotto A cura del Dott. Vincenzo Scattoni U.O. Urologia Ospedale San Raffaele, Milano
- Ipertrofia prostatica benigna: pillola o bisturi?
La terapia della IPB sintomatica è attualmente molto variabile: le alternative spaziano infatti dalla semplice osservazione nel tempo, al trattamento medico (alfa bloccanti, inibitori della 5-alfa reduttasi, estratti vegetali), a quello chirurgico invasivo (endoscopico o a cielo aperto). La scelta deve partire innanzitutto dalla quantificazione dei disturbi minzionali e dalla valutazione della qualità di vita del paziente che, adeguatamente informato delle alternative terapeutiche (compresa l’osservazione vigile), deve essere coinvolto attivamente nell’iter decisionale. Se i sintomi sono lievi e poco o per nulla fastidiosi e gli esami strumentali effettuati non indicativi di grave ostruzione, il semplice monitoraggio annuale costituisce, infatti, la scelta più opportuna. Se i disturbi minzionali sono invece più marcati e fastidiosi si deve prendere in considerazione una terapia, medica o chirurgica. Nella valutazione del paziente con IPB bisogna, tuttavia, tenere anche in considerazione la storia naturale della IPB. La storia naturale di una malattia delinea la sua evoluzione nel tempo in assenza dell’intervento medico. Nel caso della prostata, è difficile descriverne la storia naturale e determinarne la reale incidenza e prevalenza a causa della mancanza di una precisa definizione d’ipertrofia prostatica dal punto di vista clinico. Tuttavia, il problema può essere parzialmente superato analizzando le conseguenze della ipertrofia prostatica in termini, ad esempio, di sintomi o di complicanze. La progressione della ipertrofia prostatica dal punto di vista clinico potrebbe essere definita da una serie di fattori quali il peggioramento dei disturbi minzionali, una riduzione del flusso minzionale, una continua crescita del volume prostatico, o dalla comparsa di alcune complicanze quali macroematuria, infezioni delle vie urinarie e un aumentato rischio di ritenzione acuta d’urina o la necessità di un intervento chirurgico. I parametri considerati sono: 1. Peggioramento dei sintomi; 2. Diminuzione del Qmax; 3. Aumento del volume prostatico; 4. Aumento della incidenza di ritenzione acuta di urina (AUR) e/o necessità di chirurgia; 5. Elevazione dei livelli sierici di PSA. Il riconoscere che esistono elementi clinici di evolutività richiede un nuovo approccio al management della malattia, nel senso che il medico deve identificare e seguire nella loro evoluzione i suddetti parametri. In questi ultimi 20 anni sono stati compiuti diversi studi clinici che hanno permesso di identificare i fattori più forti nel predire la progressione dell’ipertrofia prostatica (tabella 2). Questi fattori di rischio non devono, tuttavia, essere presi in considerazione singolarmente e la loro forza dipende, a loro volta, da altri fattori di rischio quali l’età (o il PSA). Per esempio, la misurazione della qualità della vita è considerato un debole indicatore di progressione, ma l’intensità di questo parametro aumenta se si tiene conto del valore del PSA fino a diventare un forte indice se normalizzato con l’età. Il volume prostatico è considerato un forte indicatore di progressione e questo diviene anche più forte se normalizzato in funzione del PSA. Infine, un alto valore basale di PSA è in grado di predire un notevole incremento del volume prostatico. La ritenzione ha un forte potere predittivo di progressione, ma diventa ancora più attendibile all’aumentare del valore di PSA, mentre la chirurgia è un debole fattore predittivo, ma anch’esso cresce se si prende in considerazione il PSA. Il trattamento (p.es. chirurgico) può diventare un forte indicatore se nello studio sono stati valutati specifici requisiti di quando trattare il paziente. Questi parametri, anche secondo le linee guida della Società europea di Urologia, devono attualmente essere usati nel processo decisionale per identificare quei pazienti che mostrano segni di più pronunciata progressione dei disturbi e per cui possono essere programmati strategie preventive. TERAPIA MEDICA La moderna terapia medica dell’IPB costituisce la parte più interessante poiché può avvalersi di validi sussidi, che devono essere naturalmente impiegati nei singoli casi a seconda della sintomatologia e delle condizioni generali del paziente. Partendo dal principio che l’ostruzione riconosce due componenti: una statica (meccanica, legata l’ingrossamento della ghiandola) ed una dinamica (legata all’ipertono delle fibrocellule muscolari lisce del collo vescicale e del complesso prostato-uretrale), la terapia si rivolge all’una o all’altra di queste ottenendo, come vedremo, ottimi risultati. Inibitori della 5-alfareduttasi (5ARI)(finasteride-dutasteride) La finasteride, inibitore della 5 alfa reduttasi di tipo 1, e la dutasteride (inibitore della 5alfa retuttasi di tipo 1 e tipo 2) sono i farmaco ad essere impiegato a combattere la componente meccanica dell’ostruzione, l’ipertrofia della prostata. Numerosi studi clinici hanno dimostrato che questi farmaci possono determinare un miglioramento del flusso massimo (1,3-2,4 ml/sec in media) in circa il 60% dei pazienti, una riduzione del punteggio sintomatologico (2,1-5,2 punti in media) nel 60-70% dei casi ed una riduzione del volume prostatico di circa il 20-30% nell’85% dei pazienti. In particolare, il volume prostatico basale si è dimostrato un importante fattore predittivo della risposta alla terapia. Essa, infatti, si è dimostrata più efficace nei pazienti con prostate voluminose (> 40 gr.) che rappresentano d’altro canto la maggior parte dei casi di ipertrofia prostatica sintomatica. I risultati clinici si rendono più evidenti dopo almeno 6 mesi di terapia. é stato anche osservato che la terapia con ARI nei pazienti con sintomi minzionali moderati-severi e con ghiandola prostatica ingrossata, si è dimostrata in grado di ridurre del 57% il rischio di ritenzione urinaria e del 55% quello di intervento chirurgico. Le complicanze segnalate dopo prolungata terapia con ARI sono legate alla sfera sessuale e sono rappresentate da impotenza (2,1-5,1%), riduzione della libido (1,5-3,3%), riduzione del volume dell’eiaculato (0,3-2,6%) e ginecomastia (1,8%). Pertanto la prescrizione e l’uso del farmaco nei soggetti sessualmente attivi devono essere tenuti sotto attento controllo. Tali complicanze sono però generalmente reversibili con la sospensione della terapia. I 5ARI abbassano il valore del PSA di circa il 50% dopo 3-6 mesi, per cui è consigliabile eseguire un prelievo del marcatore prima di iniziare il trattamento per poi raddoppiarne il valore ai vari controlli semestrali successivi onde non interferire con la eventuale diagnosi di carcinoma prostatico. Alfa bloccanti I farmaci che bloccano i recettori alfa rappresentano, secondo le linee guida della maggiori società scientifiche urologiche, la soluzione di prima scelta dell’ipertrofia prostatica. Gli alfa bloccanti utilizzati attualmente sono selettivi per i recettori alfa1-adrenergici prostatici e quindi presentano meno effetti collaterali dei prima farmaci alfa litici non selettivi. Tali sostanze farmaceutiche sono la doxazosina, la terazosina, l’alfuzosina, la tamsulosina e la silodosina. Impiegando questi farmaci i disturbi minzionali migliorano in misura clinicamente significativa in circa il 70% dei pazienti con un decremento medio pari a 3,3-6,3 punti dello score sintomatologico (fig.7), il flusso massimo aumenta di 1,6-3,7 ml/sec nel 40% dei pazienti. Tali effetti vengono osservati dopo poche settimane di trattamento e perdurano nel tempo con il mantenimento della terapia. L’efficacia della terapia è stata anche dimostrata in termini di riduzione del residuo post-minzionale e mediante lo studio pressione/flusso. Un vantaggio non indifferente di questi farmaci è quello di non influenzare negativamente la sfera sessuale anche se alcuni di essi possono presentare eiaculazione retrograda nel 30% dei casi. I principali effetti collaterali sono rappresentati da vertigini (2,5-26%), astenia (2-14%), cefalea (0,5-13%) ed ipotensione ortostatica (0-8%). Nel 4-13% dei casi gli effetti collaterali conducono alla cessazione della terapia. Per alcuni alfa bloccanti è stata posta in evidenza una tolleranza superiore nei pazienti meno giovani (> 65 anni). I pazienti con fattori di rischio di progressione possono attualmente giovarsi di una terapia di associazione tra alfa bloccanti e ARI. Diversi studi clinici hanno infatti dimostrato sostanziali benefici della terapia di associazione in questo gruppo di pazienti e le linee guida della EAU raccomandano l'impiego di questi farmaci in queste situazioni. Terapie mediche alternative Esse sono rappresentate da estratti di piante (Serenoa repens e Pygeum africanum quelle disponibili in Italia) e dalla Mepartricina. L’uso di tali sostanze nel trattamento dei disturbi minzionali correlati all’adenomatosi prostatica è comune soprattutto in Europa. Il meccanismo d’azione degli estratti vegetali non è stato ancora completamente chiarito e sono stati ipotizzati un effetto antiedemigeno, anti-infiammatorio, un’inibizione della 5 alfa-reduttasi e dell’aromatasi, una riduzione della globulina legante gli ormoni sessuali, un’alterazione del metabolismo del colesterolo e un’interferenza con alcuni fattori di crescita. Ad oggi non vi è tuttavia una forte evidenza scientifica che dimostri la reale efficacia di questi farmaci.ù Recentemente è stata approvato e introdotto l'impiego del Tadalafil 5 mg (inibitore della 5fostodiesterasi) (farmaco impiegato per il trattamento dell'impotenza - deficit erettile) come trattamento dei disturbi minzionali determinati dalla ipertrofia prostatica benigna. Il farmaco è in grado di migliorare dopo 2 settimane la sintomatologia, ma non migliora il flusso massimo o l'ostruzione vescicale. TERAPIE INVASIVE I notevoli progressi e gli eccellenti risultati che la terapia medica ha ormai raggiunto in questo campo hanno permesso una notevole riduzione delle indicazioni alle tecniche invasive. D'altro canto l'introduzione di tecniche chirurgiche sempre meno invasive hanno permesso di rendere sempre più sicuro ed efficace il trattamento di questa patologia L’indicazione al trattamento chirurgico infatti deve essere limitata ai casi con complicanze secondarie all’ipertrofia prostatica o ai pazienti con disturbi minzionali moderati-severi e con riduzione della qualità di vita, oltre naturalmente a quelli non responsivi alla terapia medica. L’exeresi dell’adenoma prostatico per via endoscopica (TURP)(Fig 1) rappresenta a tutt’oggi la terapia che consente di ottenere i migliori risultati in termini di incremento del flusso minzionale, riduzione dei disturbi urinari e disostruzione comprovata urodinamicamente; essa costituisce, pertanto, la terapia di riferimento dell’ipertrofia prostatica. Numerosi studi hanno dimostrato un miglioramento sintomatologico in più dell’80% dei casi ed un incremento del flusso massimo variabile da 8 a 18 ml/sec. La percentuale di ritrattamento a 10 anni è di circa il 10%. Un’evenienza molto frequente dopo TURP è l’eiaculazione retrograda conseguente alla mancata chiusura del collo vescicale al momento dell’emissione del seme nell’uretra prostatica. Tuttavia, non è chiaro perché tale fenomeno non si verifichi costantemente o non sempre in modo completo, e perché appaia, almeno in parte, dipendente da fattori psicologici. In alcune casistiche la frequenza dell’eiaculazione retrograda è risultata minore in pazienti bene informati al riguardo pre-operatoriamente. Accanto alla TURP, negli ultimi anni numerose si sono affermate molte altre procedure endoscopiche meno invasive che impiegano il Laser. In particolar modo il laser ad olmio sta diventando la tecnica più impiegata per il trattamento sia delle ipertrofie prostatiche di piccole sia quelle di grandi dimensioni. Oltre al laser ad olmio, più di recente, è stato introdotto il laser verde o a tullio che possono essere impiegati in molte situazioni cliniche. Queste procedure sono senza dubbio promettenti in quanto permettono di abbreviare la degenza post-operatoria, consentono di ridurre le perdite ematiche e non infrequentemente conservano l’eiaculazione. Alcune possono addirittura essere eseguite ambulatoriamente in anestesia locale. La loro efficacia nella terapia dei disturbi minzionali da ipertrofia prostatica è stata indicata da diversi studi, ma al momento non è dimostrato con certezza che presentino la stessa efficacia della TURP, soprattutto nel lungo periodo.
- La PET/TC con colina nel tumore prostatico
L’integrazione della PET con la Tomografia Computerizzata (TC), che unisce l’elevatissimo dettaglio anatomico della TC multistrato con le informazioni metaboliche della PET, consente al medico di determinare con esattezza la presenza, la sede e la diffusione delle cellule neoplastiche anche di piccole dimensioni e di valutare se le terapie in corso stanno dando i risultati attesi La Tomografia ad Emissione di Positroni (PET), è un a tecnica di Medicina Nucleare che permette di localizzare con precisione, all’interno del corpo umano, una sostanza marcata con un radioisotopo che emette positroni (radio traccianti). Questa sostanza è generalmente una sostanza attiva a livello metabolico (glucosio, colina, acqua, ammoniaca) che è legata ad un isotopo tracciante con breve emivita: i radionuclidi utilizzati nella scansione PET sono generalmente isotopi con breve tempo di dimezzamento, come 11C (~20 min), 13N (~10 min), 15O (~2 min) e 18F (~110 min). Per via del loro basso tempo di dimezzamento, i radioisotopi devono essere prodotti da un ciclotrone posizionato in prossimità del lo scansionatore PET. Questi radiotraccianti vengono iniettati nel corpo da analizzare per tracciare i luoghi in cui vengono a distribuirsi. L’integrazione della PET con la Tomografia Computerizzata Multistrato (PET/TC) è in grado di unire l’elevatissimo dettaglio anatomico della TC multistrato con le informazioni funzionali caratteristiche della PET, fornendo al Clinico informazioni morfo-funzionali con un unico esame. La PET-TC consente al medico di determinare con esattezza la presenza, la sede e la diffusione delle cellule neoplastiche e di valutare se le terapie in corso stanno dando i risultati attesi. L’esame quindi consiste nell’iniettare il radio tracciante e, dopo un tempo di attesa durante il quale la molecola metabolicamente attiva (spesso uno zucchero) raggiunge una determinata concentrazione all'interno dei tessuti organici da analizzare, il soggetto viene posizionato nello scanner. L'isotopo di breve vita media decade, emettendo un positrone. Dopo un percorso che può raggiungere al massimo pochi millimetri, il positrone si annichila con un elettrone, producendo una coppia di fotoni gamma emessi in direzioni opposte fra loro. Questi fotoni sono rilevati quando raggiungono uno scintillatore, nel dispositivo di scansione, dove creano un lampo luminoso, rilevato attraverso dei tubi fotomoltiplicatori. Punto cruciale della tecnica è la rilevazione simultanea di coppie di fotoni: i fotoni che non raggiungono il rilevatore in coppia, cioè entro un intervallo di tempo di pochi nanosecondi, non sono presi in considerazione. Dalla misurazione della posizione in cui i fotoni colpiscono i l rilevatore, si può ricostruire la posizione del corpo da cui sono stati emessi, permettendo la determinazione dell'attività o dell'utilizzo chimico all'interno delle parti del corpo investigate. Lo scanner utilizza la rilevazione delle coppie di fotoni per mappare la densità dell'isotopo nel corpo, sotto forma di immagini di sezioni (generalmente trasverse) separate fra loro di 5 mm circa. La mappa risultante rappresenta i tessuti in cui la molecola campione si è maggiormente concentrata e viene letta e interpretata da uno specialista in medicina nucleare o in radiologia al fine di determinare una diagnosi ed il conseguente trattamento. L’esame è ben tollerato e non comporta alcun pericolo. La radioattività scompare rapidamente dall’organismo e la dose assorbita è simile a quella di un esame radiografico. Non sono stati riportati, nella letteratura internazionale, effetti collaterali. Il tessuto neoplastico, in generale, utilizza il glucosio come substrato energetico. Nel caso del tumore prostatico la colina è risultata essere più specifica e il radionuclide colina marcato con carbonio11 è risultato essere migliore del 18FDG (fluoro-desossi-glucosio). L’impiego di un tracciante analogo del glucosio permette di indagare il metabolismo glucidico del tessuto neoplastico in vivo in modo non invasivo; data la correlazione evidenziata tra l’elevato accumulo di tale tracciante e la malignità del tumore. La PET-TC è utile in oncologia clinica sia in campo diagnostico che prognostico per definire la sede e l’estensione della malattia e la risposta alla terapia, contribuendo a modificare significativamente l’approccio terapeutico al paziente oncologico. E’ possibile diagnosticare precocemente una neoplasia e rappresentarne tridimensionalmente le dimensioni e la diffusione oltre a localizzare le eventuali metastasi a distanza. Queste conoscenze sono di aiuto al medico al momento di prendere una decisione sulle misure terapeutiche da adottare, come una chemioterapia o un intervento chirurgico. Prima di iniziare la terapia la PET-TC è in grado di definire in maniera ottimale l’estensione di un intervento chirurgico o di un trattamento radioterapico. In corso di terapia è possibile individuare gli effetti della cura sul tumore, più precocemente di quanto non si possa fare con la TC o con la RM che riscontrano variazioni volumetriche del tumore solo dopo parecchi cicli di terapia. Già due settimane dopo aver iniziato una cura oncologica è possibile sapere se questa ha avuto successo e se è opportuno continuarla evidenziando fin dall’inizio terapie poco efficaci, con effetti collaterali per il Paziente. I principali tumori in cui la PET-TC può essere utile: Testa e Collo, Polmone, Mammella, Linfomi, Stomaco, Vescica, Ovaio, Colon-retto, Melanoma, Osso,Parti molli. Recenti studi hanno dimostrato che l’integrazione di immagini aventi diverso contenuto informativo può essere utilizzata nel campo radioterapico per migliorare le procedure diagnostiche e ottimizzare le geometrie di irraggiamento: in particolare l’integrazione di immagini multimodali TC e PET permette di migliorare la diagnosi delle patologie neoplastiche, in quanto le indagini funzionali PET con 18FDG sono in grado di individuare le alterazioni tumorali associate al metabolismo del glucosio con alta accuratezza e ancora prima che siano evidenziabili radiologicamente delle alterazioni anatomiche. L’inclusione dei dati PET nella pianificazione di un trattamento radioterapico permette di definire con maggiore accuratezza il volume bersaglio, di includere nel volume da irradiare soltanto i linfonodi positivi, di identificare eventuali metastasi a distanza e di individuare le masse neoplastiche in aree poco definite dalla TC. Per utilizzare nel modo migliore tutti i vantaggi offerti dall’integrazione di immagini TC e PET è necessario che i due studi tomografici siano prima allineati in uno stesso sistema di riferimento spaziale; questa operazione richiede l’uso di una tecnica di registrazione accurata e validata dal punto di vista clinico, per stimare i parametri della trasformazione geometrica che realizza una corrispondenza punto a punto fra le strutture anatomiche dei due studi. Nel caso del tumore prostatico, la PET/TC con colina permette di diagnosticare molto precocemente la sede della ripresa della malattia tumorale nei pazienti sottoposti a trattamento primario (prostatectomia radicale o radioterapia) e che hanno sviluppato una recidiva biochimica con rialzo del PSA. È necessari aspettare fino a valori di PSA> 0.5 ng/ml dopo prostatectomia per poter eseguire l’esame, dato che a valori inferiori è molto probabile che la PET/TC risulti falsamente negativa. In caso di positività è quindi possibile identificare la sede della malattia recidiva (locale o a distanza) e programmare il conseguente miglior trattamento. È necessario, tuttavia, segnalare che la PET/TC non si è rivelata utile nella diagnosi del tumore prostatico primitivo dato che anche la prostata sana è in grado di captare il radio tracciante.
- La biopsia prostatica di fusione
La biopsia prostatica di #fusione e il ruolo della risonanza magnetica #multiparametrica della prostata. Nel corso dell’ultimo quinquennio la Risonanza Magnetica Multiparamaterica della prostata ha dimostrato di essere una metodica estremamente accurata nel evidenziare la presenza di tumore della prostata. Il valore della mpMRI risiede proprio nella sua capacità di identificare soprattutto quei tumori della prostata clinicamente significativi, ovvero potenzialmente pericolosi per la vita del paziente. Al contrario, i tumori che la mpMRI non riesce ad identificare sono generalmente di bassa aggressività (ovvero clinicamente insignificanti o indolenti) e non dannosi per la vita del paziente. L’attuale tendenza, infatti, e di non procedere con l’esecuzione della biopsia in caso di negatività della mpMRI dato che il potere predittivo negativo di questa metodica è vicino al 95%. #Biopsia prostatica con tecnica fusion Ad oggi è possibile eseguire delle biopsie mirate alle aree prostatiche sospette (con PIRAS>=3) per tumore individuate alla mpMRI mediante una metodica di fusione dell’immagine ecografica e dell’immagine di risonanza magnetica (biopsie prostatiche con tecnica fusion). Durante l’esecuzione l’immagine ecografica, rilevata con sonda endorettale, viene sovrapposta all’immagine della risonanza magnetica consentendo l’identificazione dell’area sospetta ed il prelievo bioptico della stessa. Benefici - Maggiore sensibilità nell’identificare tumori prostatici clinicamente significativi (“maggiormente aggressivi”) - Riduzione della diagnosi di tumori clinicamente non significativi (“meno aggressivi”) - Ridurre il trattamento di neoplasie che non rappresentano un pericolo di vita per il paziente limitando quindi il numero di interventi chirurgici - Riservare sempre più il trattamento chirurgico ai soli pazienti con diagnosi di tumore prostatico clinicamente significativo. Quali pazienti? - Pazienti con diagnosi di tumore prostatico (ad una precedente biopsia) in regime di sorveglianza attiva (follow up) - Pazienti con sospetto di neoplasia prostatica, mai sottoposti a biopsia, che abbiano eseguito una risonanza magnetica alla prostata a scopo diagnostico, risultata positiva per lesioni sospette (con punteggio di PIRADS >=3). Biopsie prostatiche fusion c/o IRCCS San Raffaele Presso il Centro RAF #Resnati di Via Santa Croce 10 (Tel 02 58187818) è attivo il servizio di biopsie prostatiche transrettali mirate con tecnica #fusion (sistema UroNav di Philiphs). La manovra viene eseguita ambulatorialmente in anestesia locale.
- Il carcinoma prostatico: PSA e derivati (PHI) e Risonanza Magnetica Multiparametrica (mpMRI)
La #mpMRI insieme al #PSA ed i suoi derivati (il #PHI in particolare) sono ad oggi considerati come i marcatori più accurati ad identificare una neoplasia prostatica clinicamente significativa. Si sono inoltre dimostati molto utili sia per escludere la necessità di eseguire la biopsia prostatica e , quando invece necessario eseguirla, anche nel guidare meglio l'ago bioptico nella zona più sospetta Introduzione Il carcinoma prostatico è fra le più frequenti patologie tumorali dell’uomo: nel 2012 nel mondo si sono registrate circa 1.1 milioni di diagnosi. In quanto a mortalità è da considerarsi globalmente come la quinta causa di morte più frequente nella popolazione maschile (307.000 decessi causati nel 2012). Nonostante ciò, la sopravvivenza media dopo la diagnosi è sicuramente elevata se paragonata a quelle di altre patologie neoplastiche. Per questo motivo, la diagnosi precoce a mezzo dello screening è uno strumento essenziale di medicina preventiva sul quale puntare. Screening: quali le armi a disposizione? Allo stato attuale è stato dimostrato che lo screening basato unicamente sul dosaggio del PSA conduce alla esecuzione di un numero elevato di biopsie prostatiche non necessarie ed alla possibilità di diagnosi di tumori non clinicamente significativi. Per questo motivo è assolutamente necessario che vengano sviluppati dei nuovi metodi di screening che consentano di ottimizzare il processo di diagnosi precoce. L’antigene prostatico specifico (PSA) Il PSA è una glicoproteina espressa sia dal tessuto prostatico sano, che da quello affetto da neoplasia. La quantità del PSA misurabile nel sangue solitamente aumenta di molto in caso di neoplasia prostatica, anche se alcuni tipi di tumore prostatici potrebbero non rispettare questa regola. Il PSA può viaggiare nel sangue nella sua forma libera (Free PSA), oppure legato a delle proteine (Bound PSA). La percentuale di free PSA assume solitamente dei valori più bassi nei pazienti affetti da cancro alla prostata. A cosa serve misurare il PSA? Il PSA è utile specialmente per due motivi: consente di valutare l’estensione della neoplasia prostatica (di stabilire cioè quanto è grave e diffusa nell’organismo) e permette di stabilire la risposta ai vari possibili tipi di trattamento previsti per il tumore alla prostata, dopo che questi sono stati eseguiti. L’utilizzo del PSA come strumento di screening per diagnosticare precocemente il cancro alla prostata è assai diffuso, ma controverso. Il PSA è effettivamente un biomarker del tumore prostatico, tuttavia, considerato singolarmente, la sua accuratezza nel poter individuare una neoplasia prostatica è da considerarsi non ideale. La bassa specificità del PSA potrebbe condurre all’esecuzione di biopsie prostatiche non necessarie, esponendo i pazienti alle possibili complicazioni di queste ultime (sanguinamento, dolore ed infezioni, sino alla sepsi). PSA ed i suoi derivati: il Prostate Health Index (PHI) Data la non completa affidabilità del PSA, negli ultimi anni si sono studiate nuove metodiche di misurazione che consentissero di apportare migliorie allo screening del tumore prostatico. Una fra queste è il Prostate Health Index (PHI), che assume i connotati di un numero, ricavato a partire dal [-2]proPSA (una particolare isoforma del precursore biologico del PSA). Recenti studi prospettici e multicentrici documentano come il PHI sia da considerarsi uno strumento di screening migliore del solo PSA. Il PHI, sviluppato a cavallo degli anni 2000, ha mostrato dei risultati promettenti per quanto riguarda la capacità di predire una possibile neoplasia prostatica, ma nonostante ciò non ha ancora un ruolo ben definito nella gestione clinica di un paziente affetto da cancro prostatico. La risonanza magnetica multiparametrica (mpMRI) della prostata. Nel corso degli ultimi anni un nuovo strumento di imaging si è progressivamente affacciato nel panorama diagnostico della patologia neoplastica prostatica: si tratta della risonanza magnetica multiparametrica (mpMRI) – Immagine 1. Immagine 1: Valutazione Radiologica della prostata ed aspetto radiologico di un sospetto tumore prostatico A cosa serve e quali sono i vantaggi nell’eseguirla? La mpMRI offre la capacità sempre più affidabile di riconoscere le neoplasie prostatiche potenzialmente significative (attraverso l’utilizzo del PI-RADS, un sistema di valutazione radiologico utilizzato al fine di caratterizzare e valutare tutti i noduli o anomalie messi in evidenza dall’esame – Immagine 2). Studi hanno dimostrato che fra i suoi vantaggi si possono annoverare una migliore selezione dei pazienti candidabili a biopsie prostatiche nonché un miglior targeting delle lesioni durante l’esecuzione delle stesse. La mpMRI inoltre fornisce informazioni riguardanti lo stadiazione (quindi l’estensione del tumore) ed è utile anche nella fase di monitoraggio e valutazione della risposta ad un eventuale trattamento. Punteggio PI-RADS Significato clinico PI-RADS 1: Neoplasia clinicamente significativa molto improbabile PI-RADS 2: Neoplasia clinicamente significativa improbabile PI-RADS 3: Neoplasia clinicamente significativa incerta PI-RADS 4: Neoplasia clinicamente significativa probabile PI-RADS 5: Neoplasia clinicamente significativa molto probabile Immagine 2: Immagini mpMRI dei diversi possibili punteggi PI-RADS e loro significato clinico. La parte colorata delle immagini mostra i nomi dei vari tipi di sequenze visionate dal medico che consentono l’attribuzione del punteggio finale. Si può considerare la mpMRI come annoverabile tra le armi a disposizione del clinico per una diagnosi precoce del tumore prostatico? Alcuni autori (Wallis et al. “Role of mpMRI of the prostate in screening for prostate cancer”), hanno analizzato questa possibilità, riportando che fra gli uomini con PSA elevato mai sottoposti in precedenza ad una biopsia prostatica, la mpMRI ha dimostrato risultati più che promettenti sia nell’identificare sia nell’escludere una neoplasia prostatica. Screening per mezzo della mpMRI: si può fare? Nella eventualità dell’adozione di un nuovo sistema di screening basato sulla esecuzione di una mpMRI, sicuramente il costo della procedura (nettamente superiore a quello del dosaggio del PSA) ne costituirebbe il principale svantaggio. È però anche vero che i costi per individuo necessari alla esecuzione di una mpMRI sarebbero simili a quelli richiesti per l’esecuzione di una colonscopia, il test di screening raccomandato per la prevenzione del cancro del colon-retto. Ciò che è certo è che gli avanzamenti tecnologici di cui siamo spettatori hanno la potenzialità di rendere uno screening basato sulla mpMRI possibile nel futuro. Dunque, la mpMRI ed il PSA ed i suoi derivati (il PHI in particolare) sono stati proposti come biomarcatori utili ad identificare una neoplasia prostatica clinicamente significativa prima della esecuzione di una biopsia e gli studi sopra citati riportano la precisione delle singole metodiche. Ma è possibile che integrate fra loro, le metodiche risultino ancor più efficaci? PSA, PHI e Risonanza magnetica multiparametrica: l’unione fa la forza Sono stati condotti alcuni studi al fine di integrare i dati dei biomarker sierologici (ci riferiamo con tale dizione al PSA ed ai suoi derivati) con i dati della mpMRI intesa come biomarker e strumento di screening. Alcuni autori (Gnanapragasam et al. “The Prostate Health Index adds predictive value to multi-parametric MRI in detecting significant prostate cancers in a repeat biopsy population”) forniscono per la prima volta evidenza scientifica di un ruolo complementare sussistente fra PHI e mpMRI. Lo studio dimostra che la combinazione di PHI e mpMRI migliora il riconoscimento di neoplasie prostatiche se comparata all’utilizzo della sola mpMRI. In un recente studio altri autori (Hsieh et al: “Combining Prostate Health Index and multiparametric magnetic resonance imaging in the diagnosis of clinically significant prostate cancer in Asian population”) dimostrano come la combinazione del PHI e della mpMRI possano essere dei promettenti strumenti di valutazione pre-biopsia, in grado di svelare la presenza di un carcinoma prostatico clinicamente significativo evitando l’esecuzione di biopsie prostatiche non necessarie. Nell’ambito dello stesso studio gli autori suggeriscono un algoritmo che possa guidare il clinico nell’utilizzo del PHI e della mpMRI al fine di ottenere la migliore resa diagnostica basato sul punteggio PI-RADS della mpMRI e sul PHI: la mpMRI dovrebbe essere utilizzata come test di triage per i pazienti con sospetto clinico di carcinoma prostatico. I pazienti con lesioni con un punteggio PI-RADS 5 dovrebbero direttamente essere sottoposti alla biopsia. I pazienti con lesioni con un punteggio PI-RADS di 4 o meno dovrebbero invece essere sottoposti al PHI, in grado a quel punto di rendere più facile la decisione di sottoporre o meno il paziente a delle biopsie. Conclusioni La letteratura scientifica sostiene il ruolo complementare che sussiste fra PSA e derivati e mpMRI. Negli studi presi in esame viene dimostrato come per la diagnosi di neoplasie prostatiche clinicamente significative la combinazione del PHI e della mpMRI ha una accuratezza maggiore comparata a quella del PHI o della mpMRI presi singolarmente. La necessità di studi di validazione esterna e di ulteriori lavori scientifici che approfondiscano l’argomento in questione (che ha iniziato ad essere analizzato in maniera più organica solo negli ultimi anni) costituiscono la chiave necessaria al fine di migliorare la pratica clinica nel vasto campo del tumore della prostata.
- Prostatite e sessualità
Una caratteristica della prostatite (soprattutto se cronica) è rappresentata dall’insorgenza o dall’aggravarsi di una varia sintomatologia della sfera sessuale maschile, con notevoli ripercussioni in ambito psico-sessuale del paziente e della coppia nel suo insieme. Le malattie infiammatorie della prostata sono infatti una delle principali cause di disturbi andrologici quali deficit erettile di vario grado, alterazioni dell’eiaculazione come sensazione di dolore o bruciore durante l’orgasmo, alterazi one della quantità dello sperma eiaculato, presenza di sangue nello sperma (emospermia), infertilità maschile. La prostatite è una condizione patologica che consiste nell’infiammazione della prostata e rappresenta una malattia molto diffusa nella popolazione maschile, potendo interessare soggetti adulti di qualsiasi età, anche giovani. Si tratta di una patologia clinicamente e soggettivamente eterogenea in quanto può presentarsi con caratteristiche diverse che rispecchiano i differenti meccanismi eziopatogenetici sottostanti; molteplici sono infatti le cause che possono determinarla e l’andamento e intensità dei sintomi che la caratterizzano. Per questi motivi e per il frequente ritardo con il quale il paziente si rivolge al medico, le prostatiti rappresentano spesso una sfida complessa per l’Urologo sia in ambito diagnostico che terapeutico. Proprio il ritardo con il quale il paziente si rivolge allo specialista – che talora è quantificabile in diversi mesi dall’insorgenza dei primi disturbi – rappresenta una delle caratteristiche di questa malattia ed una delle cause della successiva difficoltà nell’ottenimento della completa guarigione. La prostatite può infatti essere una malattia invalidante, con sequele urologiche ed andrologiche non indifferenti. In Italia, come in tutto il mondo occidentale, ogni anno moltissimi uomini risultano affetti da una forma di prostatite, con evidenti ripercussioni non solo in ambito medico ma anche emotivo, relazione e professionale. A questo proposito è utile sottolineare che si stima che un uomo su due, nel corso della propria vita, sviluppi almeno un episodio di prostatite. Ad oggi le prostatiti vengono schematicamente distinte in 4 gruppi secondo la classificazione del National Institute of Health (NIH): Le prostatiti di tipo I si manifestano clinicamente in maniera “esplosiva” con la rapida comparsa di sintomi quali febbre elevata, dolore al basso ventre ed alla regione genitale, disturbi urinari di nuova insorgenza come bruciore e/o urgenza minzionale, aumentato numero delle minzioni giornaliere, riduzione della forza getto urinario con anche possibilità di un vero e proprio “blocco” – situazione definita ritenzione urinaria acuta – con necessità di cateterizzazione vescicale. Le prostatiti di tipo II presentano un corteo sintomatologico di intensità minore ma che risulta comunque fortemente invalidante per il paziente che ne è affetto; in questa situazione predominano i disturbi urinari e della sfera andrologica (deficit erettile di vario grado, eiaculazione precoce e/o dolorosa, infertilità maschile, ecc.). Caratteristica di questa forma è l’andamento prolungato – cronico – o ricorrente nel corso di diversi mesi. Le prostatiti di III tipo si presentano clinicamente in maniera simile a quelle di tipo II; ciò che cambia è la causa scatenante. Le prostatiti di tipo IV, come dice il nome stesso, sono caratterizzate dall’assenza di una sintomatologia accusata dal paziente; esse risultano però documentabili tramite esami specialistici uro-andrologici (spermiogramma con esame colturale; biopsie prostatiche). Le cause determinanti le prostatiti di tipo I e II sono essenzialmente di tipo infettivo. Nelle prostatiti di tipo I, sono generalmente batteri quali Escherichia Coli o altri germi come Enterococchi che, tramite le vie urinarie o il circolo sanguigno, colonizzano la ghiandola prostatica, infettandola e quindi infiammandola. Le prostatiti di tipo II sono invece sostenute da infezioni più subdole, causate da germi definiti “atipici” quali Chlamydia, Ureaplasma, Mycoplasma e Trichomonas vaginalis. Alcune di queste ultime forme di prostatiti sono classificabili come malattie a trasmissione sessuale; il reciproco “scambio” di germi con la partner, anch’essa colonizzata, durante i rapporti, rende difficile l’eradicazione dell’infezione e quindi necessario un trattamento farmacologico non solo dell’uomo affetto ma della coppia. Le cause determinanti le prostatiti di tipo III e quindi della sindrome dolore pelvico cronico (CPPS) sono più complesse e, ancora oggi, non perfettamente chiarite. Vengono chiamati in causa processi infiammatori secondari a traumi di varia natura della regione perineale, alterazioni neuromuscolari che esitano in contratture dolorose del pavimento pelvico e disfunzioni del sistema immunitario con conseguente stato infiammatorio cronico. Nel caso delle prostatiti di IV tipo le cause possono essere individuate fra quelle precedentemente menzionate; caratteristica di queste forme è, come precedentemente accennato, il fatto che il paziente risulta completamente asintomatico. Una caratteristica delle prostatiti croniche è rappresentata dall’insorgenza o dall’aggravarsi di una varia sintomatologia della sfera sessuale maschile, con notevoli ripercussioni in ambito psico-sessuale del paziente e della coppia nel suo insieme. Le malattie infiammatorie della prostata sono infatti una delle principali cause di disturbi andrologici quali deficit erettile di vario grado, alterazioni dell’eiaculazione come sensazione di dolore o bruciore durante l’orgasmo, alterazione della quantità dello sperma eiaculato (iper o ipoposia), presenza di sangue nello sperma (emospermia), infertilità maschile. Come un circolo vizioso, la presenza di questo importante corteo sintomatologico esita spesso in un fattore stressante per il paziente e in un successivo calo della libido con conseguente peggioramento del quadro clinico andrologico. Tutto questo avviene perché la prostata è un organo che ha un ruolo centrale nel normale funzionamento dell’apparato genitale maschile. Il “compito” fisiologico della prostata è quello di produrre un liquido – il liquido prostatico - che rappresenta una delle componenti principali dello sperma, grazie al quale gli spermatozoi, prodotti a livello testicolare, possono rimanere vitali e adatti alla fecondazione. Questo ci rende facile capire come una infiammazione, spesso su base infettiva, e quindi un malfunzionamento della ghiandola prostatica possa esitare nelle numerose sopracitate alterazione andrologiche anche in pazienti giovani di 20 – 50 anni senza altri problemi di salute. In quest’ottica risulta importante sottolineare come spesso le prostatiti possano presentarsi esclusivamente con disturbi della sfera sessuale mas chile piuttosto che di tipo prevalentemente urinario come si è portati istintivamente a credere. E’ importante che un paziente con sintomi di questo tipo venga inquadrato da uno specialista esperto, che indaghi l’eventuale presenza di una prostatite il cui trattamento può portare ad un miglioramento della situazione clinica o alla completa guarigione. In questo contesto è utile ribadire che le prostatiti croniche causate da infezioni batteriche sono una causa frequente e curabile di infertilità maschile, il cui ritardo diagnostico e terapeutico può essere fonte di notevole stress per la coppia che cerca una gravidanza senza successo. Per quanto concerne la diagnosi, l’Urologo dispone di diversi mezzi per accertare la presenza di una prostatite quando la storia clinica del paziente e la visita specialistica indicano questo sospetto. Gli accertamenti diagnostici generalmente richiesti in questi casi comprendono: esame delle urine con urinocoltura (normale e dopo massaggio prostatico), spermiocoltura, uroflussometria con valutazione del residuo urinario vescicale post-minzionale ed ecografia prostatica trans-rettale. Il dosaggio del PSA tramite prelievo di sangue, che ha un ruolo importante nell’ambito della diagnosi precoce del tumore prostatico, non risulta particolarmente utile in caso di sospetta prostatite. I semplici esami sopra elencati possono essere eseguiti nel giro di poco tempo e risultano assolutamente non invasivi per il paziente e soprattutto garantiscono utili informazioni che possono confermare la diagnosi e quindi permettere all’Urologo di impostare una terapia mirata alla completa risoluzione della patologia. Per quanto concerne la terapia delle prostatiti essa deve essere impostata con il fine di rimuovere la reale causa scatenante l’infiammazione della ghiandola prostatica. Nel caso delle prostatiti sostenute da infezioni batteriche, la terapia è di tipo antibiotico, la cui scelta deve essere basata in funzione dell’esito degli esami colturali, con una durata variabile di 2-4 o 4-6 settimane rispettivamente per le prostatiti di tipo I e di tipo II. Il trattamento delle prostatiti di tipo III è più complesso e prevede l’utilizzo di farmaci antinfiammatori, antidolorifici, antiedemigeni, miorilassanti e/o farmaci utilizzati nel trattamento dell’iperplasia prostatica (alfa-litici); sovente può rendersi necessario l’utilizzo di nuove strategie terapeutiche basate sulle onde d’urto a bassa intensità (LISWT) erogate a livello perineale (immagine 1 e 2). Nel caso in cui predominino disturbi quali il deficit erettile, può essere utile prescrivere al paziente una terapia orale a base di farmaci inibitori della fosfodiesterasi 5 con l’obiettivo di migliorare la funzione erettile, quando il rischio infettivo risulta superato. Lo schema e la durata di tali terapie rispecchiano la difficoltà di trattamento di questo tipo di prostatiti ed il fatto che devono sempre essere modellate sul singolo paziente affetto. In conclusione possiamo quindi affermare che le prostatiti sono condizioni molto frequenti negli uomini anche giovani, che le cause determinanti sono molteplici e spesso - ma non sempre - di tipo infettivo, che i sintomi comprendono sia disturbi urinari che sessuali e che la terapia ottimale deve essere prescritta da un Urologo esperto alla luce della visita medica e degli esami diagnostici. Immagine 1. Erogatore di Onde d’Urto a Bassa Intensità (LISWT) “DUOLITH SD1” Storz Medical R Immagine 2. Applicazione locale di Onde d’Urto a Bassa Intensità (LISWT) con sistema “DUOLITH SD1” Storz Medical R per il trattamento della sindrome del dolore pelvico cronico (CPPS)
- Prostatite: cibo a rischio per il carcinoma prostatico
La dieta sembra avere un ruolo determinante nella cura e prevenzione della prostatite, anche se non esistono studi clinici che attestino in modo preciso il legame fra loro. La prostatite è un’infiammazione della prostata che si può manifestare in forma acuta o cronica. La forma acuta è caratterizzata da forti bruciori al momento della minzione, con febbre anche moltoelevata, forti dolori all’altezza del pube e aumento della frequenza a urinare. La forma cronica si presenta clinicamente con disturbi minzionali lievi ma persistenti e ricorrenti in assenza di febbre. L’infiammazione acuta della prostata è fondamentalmente riconducibile alla presenza di batteri provenienti dalla vescica o dal canale urinario, passaggio favorito da scorrette abitudini alimentari come l’abuso di alcol e di cibi piccanti (peperoncino), oppure dalla pratica di alcuni sport come equitazione o ciclismo. In caso di non completa guarigione dalla forma acuta o di persistenza delle cause favorenti, il processo infiammatorio diventa cronico con conseguente ristagno intra-prostatico delle secrezioni e dei batteri. Le prostatiti sono un evento molto comune e quasi tutti gli uomini vengono colpiti da questa affezione almeno una volta nella vita con un picco di incidenza dopo i 50 anni. La prostatite, soprattutto quella cronica, è spesso associata a diminuzione della qualità della vita a causa dei sintomi, che hanno per il paziente un forte impatto fisico e psicologico. Infatti, le difficoltà che ne conseguono sul piano delle relazioni interpersonali, soprattutto nella sfera affettivo-sessuale, la più disturbata dalle problematiche organiche e psicologiche, creano un malessere che — in alcuni casi — può determinare sintomi depressivi, come documentato in letteratura. Non è ancora chiaro se la prostatite cronica sia una concausa della depressione o se sia la depressione a determinare un peggioramento dei sintomi prostatici. Prostatite e dieta Il ruolo della dieta nella cura e prevenzione della prostatite si basa esclusivamente su esperienze empiriche, soggettive e non sull’evidenza di prove scientifiche. Non esistono studi clinici che attestino in maniera precisa il legame tra dieta e prostatiti. Dato che l’infiammazione cronica può spiegare l’origine di quasi un terzo di tutti i tumori (come si verifica in maniera molto evidente per il fegato, la vescica, il colon e lo stomaco), si è ipotizzato che la prostatite possa determinare lo sviluppo di un cancro prostatico. Da qui è originata una grande confusione in quanto si è pensato di poter prevenire lo sviluppo di questo tumore grazie all’assunzione di molecole naturali o di sintesi (chemioprevenzione) ritenute capaci di mostacolare o curare la prostatite. Di fatto però, non è ancora stato stabilito scientificamente se la cura delle prostatiti con gli integratori alimentari possa davvero ridurre il rischio di sviluppare un carcinoma della prostata. Come per molte malattie, anche nel caso delle prostatiti un’alimentazione ricca di frutta e verdura (in particolar modo ortaggi, pomodori e peperoni, che contengono sostanze antiossidanti e ricche di vitamina A, D, E e di selenio) ha un ruolo coadiuvante alle terapie mediche convenzionali. Fra tutte le sostanze antiossidanti, la vitamina E, il selenio e il beta-carotene sembrano avere il ruolo di maggior importanza nella cura e prevenzione delle prostatiti. In realtà, l’effetto antiossidante sui tessuti prostatici infiammati non è ancora del tutto chiarito e perciò queste sostanze sono in fase di valutazione come integratori alimentari ad azione preventiva sullo sviluppo del tumore alla prostata in un ampio studio, il “Selenium and Vitamin E Cancer Prevention Trial (SELECT)”, i cui risultati saranno disponibili tra alcuni anni. Un altro elemento naturale chiamato in causa è lo zinco, in quanto sembra possa migliorare la flogosi locale della ghiandola prostatica. Lo zinco gioca un ruolo importante nel proteggere il DNA dai danni ed è un componente essenziale di molte proteine che riparano il DNA qualora sia alterato. Gli alimenti ricchi di zinco sono: i semi di zucca e di girasole, la farina di avena, le vongole, le aringhe, le ostriche e la crusca di grano. Un’osservazione interessante riguarda poi l’aggiunta di polline alla dieta, integrazione che ha dato risultati positivi in molti pazienti affetti da prostatite. Non si conosce la ragione esatta di questo miglioramento, ma si ipotizza che sia dovuta al magnesio, allo zinco, agli acidi grassi insaturi e agli ormoni sessuali contenuti nel polline. Anche alcune erbe possono essere d’aiuto come la serenoa repens (una palma nana proveniente dal Sud degli Stati Uniti chiamata anche saw palmetto), il ginseng, le bacche di ginepro, l’olmo americano, il prezzemolo, l’ortensia. Infine, va ricordato di assumere un’elevata quantità di liquidi per migliorare le funzioni intestinali e la stipsi. Dati gli stretti rapporti anatomici fra prostata e retto, la stipsi determina un accumulo di feci e di carica batterica nell’ampolla rettale con conseguente e inevitabile passaggio di microrganismi nella prostata per contiguità o per via linfatica. La stipsi è quindi una condizione da evitare perche è una delle principali cause favorenti la prostatite e le infezioni del basso apparato urinario. Da evitare i cibi grassi perché si vi è un legame con l’aumento della sintesi di testosterone, l’ormone sessuale maschile chiamato in causa nello sviluppo e progressione del tumore prostatico, con la diminuzione dell’assorbimento della vitamina A. È da evitare inoltre l’uso eccessivo di cibi ricchi di sale perché favoriscono la ritenzione idrica e la formazione di urine concentrate: in tal caso la carica batterica nelle urine diventa ancora più alta e aumenta il rischio di passaggio e infezione alla prostata. È fortemente raccomandato evitare l’assunzione di sostanze alcoliche, in particolare la birra, perché il luppolo può favorire la congestione della prostata. Sono altresì da evitare i cibi irritanti quali cibi piccanti, molto salati e affumicati perché in grado di irritare ancora di più i tessuti già affetti da infiammazione.